Prese singolarmente, le due parole giapponesi hiku (tirare) e komoru (chiudersi) non suonano in modo particolarmente drammatico. Ma messe insieme nel composto hikikomori possono assumere contorni addirittura tragici. Parliamo del fenomeno per il quale un giovane, anche pre-adolescente, si ritira in totale solitudine potendo maturare propositi autolesionistici. A generare allarme sono i dati presentati dallo psicologo Marco Crepaldi al XVI Congresso Nazionale FIMP (Federazione Italiana Medici Pediatri), svoltosi a Riva del Garda dal 12 al 15 ottobre 2022: nel periodo 2020-2021, più o meno corrispondente al lockdown imposto dalla pandemia di Covid-19, i casi che hanno richiesto l’intervento del pronto soccorso sono aumentati del 65%. Ma c’è di peggio, poiché risulta che ogni giorno, in Italia, un giovane di quella fascia d’età tenta il suicidio. Dunque un pericolo di morte non soltanto sociale ma anche fisica, reale, tant’è che la quantità di consulenze neuropsichiatriche richieste per stati depressivi o ansiosi è aumentata di ben 11 volte, interessando giovani dell’età media di quindici anni, corrispondente al passaggio dalle scuole medie alle superiori.
La ricerca delle cause
Quali le cause di questo fenomeno, che appare tipicamente moderno? “È un disagio che deriva dal benessere e dall’iperprotezione da parte di quei genitori che vogliono controllare la vita dei loro figli” afferma Crepaldi, che aggiunge: “Oggi non dobbiamo più preoccuparci della nostra sopravvivenza. Abbiamo come unico scopo quello di realizzarci, di essere brillanti, piacevoli nelle relazioni sociali”. Insomma, a creare questo grave squilibrio è la crescente competitività sociale unita alla paura del fallimento.
Un problema europeo
Il problema non è soltanto italiano. Il rapporto Unicef intitolato “La condizione dell’infanzia nel mondo” rivela che, in Europa, il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani dopo gli incidenti stradali, il che, tradotto in cifre, significa circa 1.200 l’anno, così distinti: 1.037 tra i 15 e i 19 anni; 161 tra i 10 e i 14.
Attualmente la ricerca sta analizzando tutti i dati disponibili per cercare di capire quali sono i cosiddetti “fattori antecedenti” che possono mettere in allarme la famiglia. Uno è sicuramente costituito dal lutto per la morte di un congiunto (soprattutto genitore). Altri si differenziano a seconda che si tratti di femmine o di maschi. Nel primo caso, si annoverano prima di tutto le malattie mentali familiari, la violenza domestica e le pressioni scolastiche; nel secondo, invece, compaiono più frequentemente l’abuso di droghe e il bullismo.
Farsi aiutare
In ogni caso, nessun segnale, per quanto debole o apparentemente passeggero, va sottovalutato. Né è il caso che i genitori o altri adulti provino a risolvere il problema da soli, se non hanno una competenza specifica. L’aiuto di uno psicologo è pertanto sempre altamente consigliabile.